Capitolo I
Una sera del mese di novembre 1628, su una stradina lungo la sponda del lago di Como, cammina un frate, don Abbondio. Mentre cammina ha alcuni pensieri che vengono improvvisamente interrotti dall’apparizione di due bravi, due brutti tipi al servizio di un signorotto spagnolo molto potente.
Dopo avere descritto le caratteristiche dei bravi, Manzoni comincia a raccontare il colloquio tra i bravi e don Abbondio: i bravi dicono al curato che, in nome del loro potente padrone, don Rodrigo, il matrimonio fra Renzo e Lucia “non s’ha da fare!”. Don Abbondio, impaurito, assicura la propria fedeltà al potente signore spagnolo promettendo che non celebrerà il matrimonio, già fissato.
Questo atteggiamento debole viene visto alla luce della giustizia del seicento, dove le minacce sono frequenti e non sono mai punite, e viene sottolineata la natura debole e paurosa del curato.
Conclusa questa riflessione del poeta, si torna alla narrazione con il ritorno a casa del curato, che racconta il suo incontro alla sua serva, Perpetua.
Capitolo II
La notte per il curato trascorre tormentata, ma gli dà il tempo di predisporre un piano per accontentare don Rodrigo: quelle nozze devono essere rinviate . Intanto bisogna respingere il primo attacco, quello di Renzo che viene di buon mattino per concordare l'ora del matrimonio. La data era stata decisa da tempo dallo stesso Don Abbondio che dapprima si finge sorpreso, poi inventa una serie di scuse di ordine amministrativo: non aveva preparato in tempo tutti gli atti prescritti dalla Chiesa. Comunque non era un dramma irreparabile rimandare di alcuni giorni. Renzo esce dalla casa del curato molto nervoso, ma fuori è ad aspettarlo Perpetua, la quale non vede l'ora di dirgli tutto . Perpetua dice a Renzo la vera causa del rinvio .Così Renzo si precipita nella stanza del curato e si fa dire il nome dell'uomo che si oppone al matrimonio. Sconsolato, Renzo si reca quindi da Lucia per comunicarle il fatto grave. Gli invitati sono allontanati con la scusa che il matrimonio non si fa per malattia del curato. Invero don Abbondio, minacciato prima dai bravi poi da Renzo, si fa venire la febbre. Intanto nella sua casa tutto è sbarrato come se fosse imminente un attacco. Perpetua ,affacciatasi ad una finestra, confermava a tutti la notizia della malattia Don Abbondio..
Capitolo III
Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli.
L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo.
Intanto Lucia insiste con la madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo.
Ritorna Renzo, deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.
Capitolo IV
Padre Cristoforo esce dal convento del paese di Pescarenico, un piccolo villaggio di pescatori nei pressi di Lecco. Sebbene il paesaggio autunnale sia splendido, il cammino del frate verso casa di Lucia è reso infelice dalle immagini di miseria lungo il percorso: persone povere, animali smagriti dalla fame, mendicanti laceri. Lui era un uomo vicino ai 60 anni, dalla lunga barba bianca, umile ma con due occhi molto vispi. Lodovico ( nome di fra Cristoforo prima di prendere i voti), figlio di un ricco mercante, viene educato in maniera aristocratica. Non essendo però visto bene nel gruppo dei nobili, inizia a difendere gli umili a dispetto dei prepotenti. Un giorno per strada, scoppia una disputa tra Lodovico ed un nobile arrogante. Nel corso della disputa , il giovane, vedendo gravemente ferito Cristoforo, il suo più fedele servitore, colpisce a morte il signorotto. Di conseguenza viene fatto rifugiare nel vicino convento , affinché potesse trovare riparo dai parenti dell'ucciso. Il convento viene circondato.Durante la sua permanenza in convento Lodovico matura la decisione di farsi frate. Dà i suoi beni alla famiglia del servo Cristoforo che era morto per lui e assume il nome di fra Cristoforo. Alla fine i frati convincono i nobili ad accettare sotto segno di pentimento la scelta monacale di Ludovico.Fra Cristoforo chiede ed ottiene di domandare scusa alla famiglia dell'ucciso in modo da scagionare anche i suoi parenti.
Fra Cristoforo ottiene un sincero perdono da tutti e induce i presenti a mitigare la loro superbia. Oltre a predicare e assistere i moribondi, fra Cristoforo opera per rimuovere le ingiustizie e per difendere gli oppressi.
Intanto il frate, giunto alla casa di Lucia e Agnese, viene accolto con gioia dalle due donne.
Capitolo V
Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.
Capitolo VI
Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio. Don Rodrigo scaccia il frate che prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.
Capitolo VII
Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.
Capitolo VIII
È il capitolo della «notte degli imbrogli», che comincia col fallimento del tentativo di matrimonio «a sorpresa»; don Abbondio, con furia inusitata, si libera degli intrusi e dà l'allarme: il campanaro Ambrogio, credendo la canonica invasa dai ladri, suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna, altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno trovato vuota la sua casa. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo, avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i fuggitivi di recarsi al convento.
Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.
Capitolo IX
Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia, che continua anche nel capitolo X.
Geltrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.
Capitolo X
Geltrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che vengono accolte da Geltrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.
Capitolo XI
Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate.
Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato.Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.
Capitolo XII
La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».
Capitolo XIII
Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione, cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.
Capitolo XIV
Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente, fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del tutto ubriaco, Renzo va a dormire.
Capitolo XV
Renzo, essendo ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio.
Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.
Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.
Capitolo XVI
Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo, dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il rischio gravissimo che ha corso.
Capitolo XVII
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto calunnioso. Dopo alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.
Capitolo XVIII
Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.
Capitolo XIX
Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.
Capitolo XX
Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.
Capitolo XXI
Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa «conversione dell'Innominato».
Capitolo XXII
L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.
Capitolo XXIII
Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.
Capitolo XXIV
Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.
Capitolo XXV
Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.
Capitolo XXVI
Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.
Capitolo XXVII
La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.
Capitolo XXVIII
Questo è un capitolo in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.
In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.
Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.
Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.
Capitolo XXIX
Intanto Don Abbondio, ricevuta notizia dell'arrivo dell'armata, risoluto di andarsene prima di tutti, seguiva Perpetua, in quanto incapace di ragionare per la paura. Egli implorava aiuto dalla finestra ai suoi parrocchiani, ma quelli indaffarati nella fuga non li badarono minimamente. Poi, entrò Agnese che propose ai due di recarsi con lei presso l'Innominato, così tutti e tre presero per i campi, seppur Don Abbondio brontolasse. Si ritrovarono nel paese del sarto e si recarono a fargli visita; questo fece cogliere fichi, pesche, fece cuocere castagne e si mise a parlare del buon ricovero che avevano scelto presso l'Innominato. Don Abbondio aveva fretta, così il sarto trovò un baroccio per la seconda metà del viaggio. L'Innominato dal giorno della conversione era sempre intento a far del bene e in questi momenti aveva fatto spargere la notizia che la sua casa è sempre aperta ai bisognosi, mettendo alcuni contadini di guardia al castello, facendo giungere inoltre provvigioni per tutti i suoi ospiti.
Capitolo XXX
La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.
Capitoli XXXI
Manzoni mette in rilievo il comportamento di una popolazione spaventata. La peste agisce generalmente in poche ore, a volte di più, portando rapidamente alla morte dei contagiati. In pochi casi si guarisce e allora si è immuni. La peste provoca la degenerazione delle ghiandole linfatiche in bubboni . Vengono organizzate riunioni all’ aperto per pregare insieme Dio che faccia scomparire questa tremenda malattia, il che, invece di fermare la diffusione di questa malattia, la accelera, perché la gente sana stando a contatto con quella malata, veniva contagiata facilmente. Gli abitanti iniziano addirittura a pensare che ci sia qualcuno che di proposito diffonde la malattia, gli untori. In realtà gli untori non esistono, ma si sono verificati casi in cui il popolo, spinto dalla disperazione, ha deciso di uccidere qualcuno sospettato di aver diffuso intenzionalmente la peste. Un esempio è il vecchio che fu ucciso perché in Duomo, prima di sedersi, aveva spazzolato la panca sporca con il cappello, ed era stato accusato di star spargendo la malattia.
Capitolo XXXII
Incapaci di affrontare il pericolo grave,i decurioni si rivolgono al governatore per sollecitare un aiuto economico diretto e per impedire il passaggio devastante delle truppe nella zone di Milano. Intanto vengono fatti pressanti richieste al cardinale per organizzare una processione con il corpo di Carlo Borromeo. La richiesta viene inizialmente rifiutata per impedire la delusione di un mancato miracolo e per scongiurare il diffondersi del contagio ad opera degli untori.In un clima di terrore vengono linciati e arrestati un vecchio innocente e 3 turisti francesi accusati di unzione.Dopo un po' però Federigo Borromeo viene convinto e quindi si iniziano i preparativi per la processione.Il giorno dopo il numero delle vittime per contagio aumenta vertiginosamente e vengono assunti dei "monatti"per trasportare i cadaveri nelle fosse comuni.Durante questo periodo non mancano le opere di bene,attuate dal cardinale;ma non mancano neanche la sopraffazione e la violenza,come i saccheggi da parte degli stessi monatti. Gli effetti più dolorosi del dramma si riscontrano nel propagarsi delle dicerie sugli untori,considerati colpevoli della peste.Alla fine Manzoni fa una introduzione per introdurre l'avvio della fine della storia di Renzo e Lucia.
Capitolo XXXIII
Tra i colpiti dalla peste è don Rodrigo, tradito dal Griso e consegnato ai monatti, i raccoglitori dei morti e dei contagiati. Renzo, che ha superato la malattia, ora che nessuno si cura più di lui, si mette in cerca di Lucia, e si reca al paese, dove trova la desolazione; da don Abbondio apprende che Perpetua è morta insieme con molti altri, che Agnese è presso parenti a Pasturo e che Lucia è a Milano, presso la famiglia di don Ferrante.
Capitolo XXXIV
Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione. Assiste all'episodio patetico della madre di Cecilia, la bambina morta di peste. Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti.
Capitolo XXXV
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.
Capitolo XXXVI
Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.
Capitolo XXXVII
Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.
Capitolo XXXVIII
Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...». |